È diffamazione aggravata diffondere un messaggio diffamatorio mediante la bacheca Facebook

È diffamazione aggravata diffondere un messaggio diffamatorio mediante la bacheca Facebook
26 Ottobre 2018: È diffamazione aggravata diffondere un messaggio diffamatorio mediante la bacheca Facebook 26 Ottobre 2018

IL CASO. Il Giudice di Pace di Cagliari aveva condannato Tizio, ritenendolo “colpevole dei reati di ingiuria, minaccia e diffamazione ai danni di [Caia], sua ex convivente e madre di sua figlia”.

La succitata sentenza era stata parzialmente riformata dal Tribunale, che “assolveva l'imputato dal reato di ingiuria perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; dichiarava non doversi procedere nei suoi confronti quanto al reato di minaccia perché già giudicato con sentenza n. 1238/2014 del GIP del Tribunale di Cagliari; rideterminava la pena in relazione al residuo reato di diffamazione compiuta tramite facebook contestato al capo B, quantificandola in 150.00 Euro di multa, riducendo, altresì, ad Euro 300.00 la condanna a titolo di risarcimento danni alla parte civile, condannandolo, infine, alle spese del giudizio”.

Avverso la sentenza d’appello Tizio aveva proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi.

Col primo aveva dedotto “violazione di legge, con riferimento agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., per mancanza di correlazione tra accusa e sentenza”, perché “la contestazione riguarderebbe una diffamazione tramite comunicazione con più persone su facebook (in particolare con O.C. e S.A.), mentre la motivazione della sentenza e la relativa condanna si riferiscono alla pubblicazione delle frasi diffamatorie sulla bacheca facebook”.

Ciò che, ad avviso dell’imputato, aveva “determinato in concreto una lesione dei diritti della difesa secondo l'interpretazione da ultimo fornita dalle Sezioni Unite nel 2015 e del diritto ad un equo processo secondo i principi CEDU”.

Col secondo motivo, Tizio aveva, invece, dedotto “violazione dell'art. 125 c.pp., comma 3, e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per carenza e contraddittorietà della motivazione nonché travisamento della prova, in quanto manca qualsiasi cenno motivazionale, nonostante la specifica richiesta in appello, circa il fatto che vi sarebbe discrasia tra la contestazione mossa [comunicazione con più persone su facebook, n.d.r.] - inidonea di per sé ad integrare il reato poiché non descrittiva di una diffusione a più persone della notizia diffamatoria, ma solo alla sig. O. ed allo stesso S. - e la motivazione, invece, basata su un fatto diverso e diffusivo, quale è la pubblicazione in bacheca ‘on line’ sul social network facebook, con possibile condivisione da parte di un numero imprecisato di ‘amici’ [pubblicazione mediante l'inserimento in una bacheca facebook, n.d.r.]; inoltre, apodittico è tale ultimo riferimento, non essendo stato provato che il profilo … non fosse chiuso e, pertanto, visibile solo alla Sig.ra O. e non essendo stata provata anche la stessa esistenza di quest'ultima”.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, Sez. V Penale, n. 40083/2018, ha rigettato il ricorso, ritenendolo “chiaramente infondato, ai limiti dell'inammissibilità”.

Infatti, ha premesso che “la condotta del ricorrente si inserisce in un contesto più complesso di atti di minaccia, molestie e maltrattamenti nei confronti della persona offesa, sua ex convivente, che hanno portato alla sua condanna per il reato di cui all'art. 572 cod. pen. nel procedimento penale n. 8870 del 2011”, sicché il Tribunale di Cagliari aveva correttamente dichiarato “non doversi procedere per ne bis in idem” per il reato di minaccia, in quanto quest’ultimo era da ritenersi ricompreso in quello di maltrattamenti.

Quanto, poi, alla diffamazione, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse dato atto “della provata riferibilità al ricorrente della condotta diffamatoria con motivazione logica ed esauriente” ed altresì della “possibilità di configurare la diffamazione nel caso di diffusione di un messaggio tramite bacheca facebooK”, giustificandola “anche con richiami giurisprudenziali pertinenti”.

Poste queste premesse, il Giudice di legittimità ha affrontato il primo motivo del ricorso, relativo alla “mancata correlazione tra accusa e sentenza, sia sotto forma di violazione di legge, sia sotto forma di vizio della motivazione”, premurandosi anzitutto di precisare quando sussista “mutamento del fatto - rilevante ai fini della violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.”.

In proposito ha richiamato “l'insegnamento di Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051” secondo cui “occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'‘iter’ del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione” e la “giurisprudenza di legittimità successiva”, che “ha ulteriormente delineato l'ambito di operatività del difetto di correlazione tra accusa e sentenza, che rileva solo allorché si verifichi una trasformazione o sostituzione delle condizioni che rappresentano gli elementi costitutivi dell'addebito e non già quando il mutamento riguardi profili marginali, non essenziali per l'integrazione del reato e sui quali l'imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo ... Sicché la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa”.

Nel caso di specie, invece, secondo la Corte di Cassazione “non si rileva[va] alcuna reale discrasia, dal punto di vista anzitutto del significato fattuale, tra le due condotte che invece si ritengono dalla difesa non coincidenti”, perché “l'imputazione si riferisce ad una comunicazione (dei contenuti diffamatori contestati) con più persone, sul social network denominato facebook, che non esclude affatto l'utilizzo di una ‘bacheca’ per tale diffusione (e cioè di un ‘luogo virtuale’, collegato al profilo social dell'utente, all'interno del quale è possibile inserire post, immagini, filmati, link che vengono visualizzati da tutti coloro che hanno accesso a detto profilo)”.

Anzi, “nella indicazione lessicale utilizzata dalla contestazione, certamente dalla valenza generalizzante, deve ricomprendersi senza dubbio qualsiasi condotta di diffusione di contenuti diffamatori tramite facebook, sia con bacheca che con altra modalità, sicché non può dirsi che il ricorrente non fosse stato in grado di conoscere sin dall'inizio il nucleo essenziale della contestazione per potersi da questa difendere: la pubblicazione di contenuti su una "bacheca" facebook, infatti, costituisce una forma di comunicazione con più persone utilizzando tale social network e, quindi, corrisponde perfettamente alla contestazione.

Il fatto - pure contestato dal ricorrente - che non si sia indicato nel capo di imputazione il nome della bacheca su cui sono state pubblicate le frasi diffamatorie è irrilevante e non determinante: tali dettagli, infatti, sono emersi nel corso dell'istruttoria dibattimentale e, pertanto, erano ben noti all'imputato che in relazione ad essi ha esercitato i propri diritti difensivi”.

Infatti, “non è dubbio che nel corso del processo il ricorrente abbia avuto modo di conoscere le caratteristiche specifiche della condotta diffamatoria che gli veniva contestata (la effettiva modalità di diffusione e condivisione delle espressioni diffamatorie, il nome della bacheca, i tempi specifici della sua realizzazione), sicché può affermarsi che non si è verificata alcuna violazione o pregiudizio dei diritti di difesa dell'imputato … che è stato sempre in grado di interloquire sul fatto concreto così come si manifestava nel processo”.

La Corte di Cassazione ha, poi, affermato che, “quanto al rilievo della mancata prova della esistenza effettiva di [Caia] non appar[iva] questo un punto determinante per la configurabilità del reato di diffamazione”, perché “la costante giurisprudenza di legittimità … afferma senza dubbio, proprio con riferimento ai messaggi ed ai contenuti diffusi tramite facebook, chela diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca ‘facebook’ integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone …, né l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria”.

Il Giudice di legittimità ha, quindi, rilevato che “deve presumersi la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone qualora l'espressione offensiva sia inserita in un supporto (nella specie, un registro) per sua natura destinato ad essere normalmente visionato da più persone”.

Precisato come “la funzione principale della pubblicazione di un messaggio in una bacheca o anche in un profilo facebook sia la ‘condivisione’ di esso con gruppi più o meno ampi di persone, le quali hanno accesso a detto profilo, che altrimenti non avrebbe ragione di definirsi social”,  la Corte di Cassazione ha, quindi, concluso per l’infondatezza anche di “questo ultimo profilo di doglianza”, perché “il mezzo utilizzato per la diffusione delle frasi diffamatorie è senza dubbio idoneo, e concretamente ha dimostrato di esserlo, a veicolarlo nei riguardi di più persone”.

Da tanto è conseguito il rigetto del ricorso proposto da Tizio e la sua condanna pure alle spese processuali.

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